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#finedelmondo

Scenari

La fine del lavoro e la fine del mondo

17 giugno 2016



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Né oggi, né domani. L'Apocalisse o fine del mondo non è all'ordine del giorno per la semplice ragione che c'è già stata ed è ormai alle nostre spalle. 





Una simile affermazione può sembrare eccessiva perché osservando attentamente lo svolgersi dei fatti si può concedere che un “certo mondo”, quello delle nostre abitudini, è probabilmente morto, ma l'altro mondo, quello “vero”, continua ad orbitare più o meno come sempre. In questa possibile obiezione dettata dall'apparente “buon senso comune” si nasconde il rischio di incomprensione reale di quei formidabili eventi che hanno portato a questa fine. Soprattutto questa riduzione ci impedisce di adeguare concretamente i nostri progetti collettivi alla consapevolezza di quanto già accaduto. La Fine già avvenuta non ci può impedire di comprendere che il nostro mondo è semplicemente il mondo che ognuno di noi percepisce, oltre il quale nulla è più come prima e nulla ci somiglia più.

Questa fine si trova ben oltre i dati materiali e politici osservabili e si segnala percorrendo l'intero reticolo nervoso individuale e collettivo. Un solo esempio: al di là dello storico susseguirsi e superarsi delle tecnologie divorate dal divenire, il crollo di abitudini percettive produce un sempre più evidente “crollo nervoso” e sarà proprio questo l'aspetto irreversibile di una fine del mondo che, tutto sommato, non ha prodotto che scarsi crolli materiali. Infatti il mondo finito si trascina come una malattia dentro al realizzarsi di quel che ancora non c'é. Non potendo descrivere la cartella clinica di tutte le sintomatologie, limitiamoci alla patologia più grave perché più strutturale e decisiva: la fine del lavoro. Una fine tangibile, seppure esorcizzata ed occultata con l'uso reiterato ed ipnotico della parola disoccupazione. Il lavoro da fondamento di tutte le umane virtù, ha cambiato natura ponendosi ormai sotto il segno volatile della fortuna. Quel che fu elemento consustanziale alla natura stessa dell’uomo è diventato il premio che la Dea attribuisce al fortunato che trova, che ha o mantiene il posto di lavoro.

Su tale questione il filosofo francese Jaques Attali ha affermato col coraggio di colui che scopre l'ombrello in tempi e luoghi soleggiati che: "Le macchine sono il nuovo proletariato, la classe lavoratrice è stata liberata". Più che liberata sarebbe corretto dire licenziata. In misura crescente, licenziata per sempre. Questa liberazione si chiama però disoccupazione e si presenta oggi come un enigma velenoso. Da millenni infatti gli esseri umani non hanno mai voluto lavoro ma reddito: in termini brutali soldi. Siamo finiti in una triste e pericolosa “terra di nessuno” mentale che si estende tra le trincee ormai mute del vecchio mondo e le linee immobili di un presente che, incapace di progettare la liberazione, resta fermo, incredulo e stordito a respirare il lezzo delle ideologie morte e insepolte che ammorbano l'aria. Siamo in quel tempo doloroso che il poeta tedesco Friedrich Holderlin prefigura come “Tempo degli dei fuggiti e del Dio che ancora non viene”. Un tempo in cui il legame tra lavoro e reddito viene provvisoriamente assemblato in un simulacro di classe lavoratrice riconoscibile per la sola, disperata difesa della sopravvivenza, laddove ogni possibilità di pensare il Futuro è del tutto assente.

 

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Hic Rhodus, hic salta \ L’epifania del sudore e la punizione del lavoro

 

La possibilità di pensare il futuro è assente perché questa volta si tratta di compiere uno strappo doloroso, un balzo formidabile oltre quella fine della storia annunciata dal politologo statunitense Francis Fukuyama. Storia che non può essere banalmente intesa come sequela di accadimenti destinati alla sola insensatezza di un agghiacciante divenire cosmico, ma come possibilità di dare senso al futuro strappandolo così alla vacuità del divenire.

La storia è mondo e il mondo è storia. Il senso della storia, dunque del mondo si riassume nella sfida incessante per superare la crisi perpetua istituita dalla maledizione biblica: " [...] Maledetto sia il suolo [...] con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita [...] Con il sudore del tuo volto mangerai il pane finché tornerai alla terra [...]" ( Genesi 3 - 17). Questo “programma economico” ha già dimostrato la propria millenaria ed universale efficacia ed essendo ancor oggi in vigore, rende difficile, anche al più incallito materialista negare l'evidenza: si tratta certamente della parola divina. Infatti la Bibbia annuncia la crisi perpetua con la quale arriva l'epifania del sudore e si proclama l'efficacia del dolore. Prende forma così il senso durissimo del lavoro: tutte le dinamiche morali, le problematiche politico-culturali e le complessità introdotte dal lavoro costituiscono l'escatologia della storia, il fine ultimo e razionale della storia e dei suoi derivati.

A nostre spese siamo finalmente riusciti a decifrare il senso della storia e a seguirne — costi quel che costi — la gloriosa direzione di marcia. Dovremo però, atei o tiepidi credenti, riconoscere che Dio, per definizione quasi unanime buono e necessariamente leale con la creatura umana, non ha mentito sul lavoro presentandocelo per quello che è: una punizione. Una punizione dalla quale la creatura umana ha cercato di sfuggire utilizzando al meglio, a volte eroicamente, il peccato stesso: la Conoscenza. Questa sfida per la redenzione ha costituito la storia e forgiato il mondo. Oggi, dopo aver dimostrato tutta la propria capacità cognitiva nell'uso liberatorio delle mele (sia pur d'una sola), riscattato il debito biblico, la maledizione cade e con essa muore l’idea del Lavoro umano fatto di sudore del volto e di dolore come unica possibilità di trarre cibo.

Il fantastico salto da compiere consiste nella separazione del reddito dal lavoro. Un salto nel vuoto comunque indispensabile alla sopravvivenza dell'intero sistema, altrimenti minacciato da convulsioni sociali disastrose, un salto sopra ed oltre il baratro per colmare la fatale separazione tra reddito e Lavoro. La scandalosa apertura della tecno-scienza resa impossibile non dai “fatti”, ma dalle presenze di fantasmi del mondo defunto. Questa conclusione del rapporto, progressivamente sempre più insostenibile, tra tecnologie direttamente produttive e lavoro umano è riassunta nella scandalosa linea di condotta : “Né morale, né decoro ma rifiuto del lavoro!”. Parola d'ordine forse prematura rispetto alle condizioni produttive reali, ma rivelatrice della precisa volontà di giocare d'anticipo sulla “fine del mondo” connotandola di un senso positivo, liberatorio, assumendola come progetto di redenzione. Oggi le voci che provengono dal quel recinto sociale ripetono — tragica beffa — quel che all'ingresso le sentinelle della disoccupazione hanno scritto da sempre: “Arbeit macht frei”, Il lavoro rende liberi. All'interno di questo carcere mentale si continua ad offrire libertà in cambio di lavoro. In cambio di un lavoro che non c'é più.

La questione radicale che si pone è quella della comprensione-accettazione dello scandaloso salto di civiltà: smettere di lavorare per sopravvivere. Che significa abbandonare definitivamente alle nostre spalle tutte le connessioni culturali e quant'altro di morale e politico aveva consentito l'aggregazione sociale del mondo già finito e, oggi, da reinventare.

Oggi noi dovremmo recuperare l’Epopteìa dell'Anima Poetica, ovvero la capacità di guardare sopra i tempi e collocarsi nel mondo; ripensandola come capacità di fare o rifare il mondo dopo la sua fine. Di quel che dovremo comunque affrontare, lasciamo facilmente intuire l'incidenza sconvolgente sul piano psicologico o sui circuiti neuronali che tengono aggregate le società fondate sulla definizione biblica del Lavoro stesso, aldilà della mera necessità produttiva. Un lavoro oggi ridotto a premio per pochi fortunati possessori del biglietto giusto alla lotteria dei miserabili. Un lavoro che resta protagonista sulla scena mediatica, dopo essersi ridotto a comparsa sottopagata sulla scena delle necessità produttive.

 

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La marcia dei Robot

 

I Classici Greci ci raccontano che l’anima poetica è la sola capace di strappare vite all'insensatezza del Divenire. Questo spirito ritorna, nei nostri giorni con una imprevista apparizione sabato 30 Aprile 2016 a Zurigo, dove si è svolta la marcia di protesta dei robot. Gli argomenti che circolavano tra Intelligenze Artificiali ed Intelligenze ancora Naturali si possono riassumere così: “Noi svolgiamo i lavori più duri e ripetitivi -sostengono i robot- e non prendiamo un Euro, mentre il nostro lavoro consente di liberare milioni di uomini dal loro. Questi uomini, detti disoccupati, non hanno reddito. Quella parte di equivalenza della ricchezza da noi prodotta e che spetterebbe a noi, versatela a loro in forma di reddito poiché noi della carta moneta non sappiamo cosa farcene .

Qualcuno farà notare che questi sono argomenti poco credibili se uditi dalle vocette stridule e gutturali degli ometti artificiali. Oppure si liquiderà la notizia zurighese riducendola a metafora. Non potrà però sfuggire a nessuno l'evidenza temporale di un evento che, rifacendoci ai Greci, diremo “poetico”: una marcia di protesta dei robot a Zurigo, un evento difficilmente immaginabile prima della fine del mondo perché non pensabile fuori dagli schemi del pensiero della civiltà del lavoro e quindi comprensibile solo se ridotto ad happening o a performance artistoide, castrata degli autentici attributi politici. Proprio il giorno nel quale i robot marciano a Zurigo reclamando un reddito per gli umani, l’Arabia Saudita decretava l'espulsione di venticinquemila lavoratori filippini divenuti inutili, nonostante fossero retribuiti a regime di semi-schiavitù. Non ci è dato sapere se la generosità politica degli omini meccanici sia veramente autentica e capace di compensare l'arido cinismo tardo-capitalista dei ricchissimi emiri sauditi. Si può infatti sospettare che i robot di Zurigo, reclamando soldi per l'Homo Faber disoccupato, volessero proteggersi dalle ritorsioni del lavoro vivo per evitare di trovarsi fatti a pezzi e riciclati come scatole di conserva, memori dei loro antenati tessitori che a Lione distrussero i telai appena introdotti nel ciclo produttivo.

Dietro questa metafora di una, per ora improbabile, guerra tra uomini e “macchine” si nascondono due pericoli di conflitti ben peggiori. Il primo concerne il nostro rapporto con la Terra, fino a ieri per noi Madre, la quale oggi è divenuta Figlia ed Amante, in un coacervo di mutazioni tremendamente complesse da gestire per l'ex Homo Faber. La vecchia Madre Terra infatti costituiva uno spazio finito contenente ancora margini di manovra maternamente messi a nostra disposizione. Quello spazio finito non può più oggi contenere l'infinito di tutte le voglie di espansione che s'annidano nell'ideologia del lavoro. Dopo quello tra noi e la Terra, che si riassume nelle cosiddette problematiche “Ecologiche”, il secondo, fatale conflitto, si profila tra la massa crescente di ex lavoro vivo privo di reddito, che non può acquistare i beni comunque prodotti dalle macchine\lavoro morto, si apre così il conflitto finale con la ragione stessa del produrre. Il conseguente impoverimento generalizzato instaura un perdurante, endemico e distruttivo conflitto sociale dagli esiti tanto prevedibili quanto nefasti.

Dire di una “fine del mondo” già avvenuta, incentrando l'argomento sulla fine del lavoro, consente di comprendere quanto e in quale misura il lavoro, ben oltre l'evidenza meramente produttiva, costituisca la matrice ideologica, il Grund culturale-politico di una civiltà. Comprensione che apre alle traumatiche prospettive del necessario superamento cognitivo di tutto ciò che per noi era famigliare e rassicurante ma che ormai giace morto alle nostre spalle. Un mondo storico del quale dovremo imparare ad elaborare il lutto. Un lutto collettivo che, oltre gli aspetti freudiani, si razionalizza così: tutto il lavoro morto s'è messo a “vivere” di conseguenza il lavoro vivo muore. Riposi — finalmente — in pace. Amen.



Immagine di copertina:

Gian Marco Montesano, BERLIN, Anhalter Bahnhof, 2015, Oil on canvas, 90 x 120 cm.


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