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#finedelmondo

Interviste

Taxi Utopia

3 giugno 2016



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"Immaginazione al potere" dicevano gli studenti del '68, ripetendo lo slogan del filosofo Herbert Marcuse. Oggi, a più di cinquant'anni di distanza, abbiamo imparato a fare a meno delle ideologie e delle grandi narrazioni. Ma si può veramente vivere "senza utopie"? 





“L'utopia è come l'orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l'utopia? A questo: serve per continuare a camminare.” (Eduardo Galeano)

 

Durante la l’edizione 2016 di "Encuentro", il festival delle letterature in lingua spagnola che si è tenuto a Perugia a maggio, abbiamo incontrato lo scrittore e storico Paco Ignacio Taibo II, autore di una ciclopica biografia su Ernesto Che Guevara. Abbiamo parlato di rivoluzioni, utopie, e della saggezza di un tassista messicano.

 

Si sente spesso dire che stiamo vivendo in un'epoca post-ideologica e post-utopica. Ma si può veramente vivere “senza utopie”?

Io credo che la miglior definizione di utopia continui ad essere quella dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano: l’utopia non è qualcosa che sta lì, ma un qualcosa che stai dicendo fino a lì, e continua oltre, si muove, non è metafisica, né una vocazione o una volontà, ma una specie di desiderio concreto il cui fine non è che la si raggiunga, ma piuttosto che la si ricerchi. Io credo si possa vivere senza molti beni materiali, ma senza l’utopia no. Si può ridurre al massimo la necessità di “cose”, ma senza utopia è molto faticoso vivere.

 

L’idea che la storia possa finire è qualcosa che ha a che fare con la crisi delle utopie?

La storia non finisce mai. La fine della storia è l'obiettivo di coloro che non vogliono che ci sia una storia. Certe forme di utopia del ventesimo secolo, nel loro concretizzarsi, hanno finito per generare mostri – giusto per prendere a prestito il titolo di una celebre opera del pittore Francisco Goya. Ma cosa aveva in comune l’utopia della rivoluzione sovietica con l’apparato autoritario stalinista? Qual era il legame tra la volontà latino-americana di una rivoluzione continua e permanente con i processi di deterioramento, di stanchezza, di burocratizzazione? Dov’era il socialismo in Europa orientale? La crisi delle utopie del ventesimo secolo deriva dallo scarto tra modello politico e realizzazione sociale, uno scarto così violento da farci pensare che ciò che si stava esaurendo fosse l'idea generale di una utopia. Ma non era affatto così, erano i prodotti che si stavano esaurendo poco a poco.

 

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E qual è allora il rapporto tra un modello utopico e la sua realizzazione storica? E c'è forse un modo per salvare il potere rivoluzionario delle utopie?

Una cosa si impara lavorando come storico: l’utopia ha uno sviluppo temporale breve, non lungo, perché a lungo termine il livello di deterioramento è tanto forte che si assiste ad una specie di congelamento dell’utopia. L'utopia si burocratizza, e per modificare lo stato delle cose si deve generare una nuova proposta di utopia. Ho studiato con attenzione, i momenti più brillanti della rivoluzione cubana – 1960-’62, ’63 forse – quando il livello di costruzione utopica era altissimo: operai in fabbrica, che quando arrivarono i tecnici Cecoslovacchi per misurare i loro tempi e calcolare gli standard di produzione, producevano di più affinché gli standard fossero più alti invece di sottoprodurre affinché gli standard fossero più bassi. Gli operai Cecoslovacchi che venivano dalla burocrazia dell’Europa orientale non capirono nulla e trascorsero tre mesi a Cuba ubriachi. Questi folli operai cubani che sovraproducevano per alzare gli standard, avevano una motivazione puramente ideologica: era lo stile del Che nell’industria, a Cuba l’utopia si respirava nelle strade. La rovina di questo processo utopico è che si sarebbe dovuto stabilizzare in tempi brevi, ma tutto questo contrastava con l'attitudine del Che, incapace perfino di pensare che esistesse un medio termine.

Inoltre si cade sempre nella tentazione di vedere il futuro come una linea retta è tipica di un filone di pensiero positivista del diciannovesimo secolo. Ma in realtà non ci sono linee rette, non c'è progresso lineare. Ti faccio l’unico esempio logico che mi viene in mente: una volta un taxista di Città del Messico mi chiese - “dove andiamo?” Io gli risposi con l'indirizzo preciso. Allora lui: “per dove vuole passare?” E io: “ovunque ci siano palme”. E il taxista capì subito. La linea retta non esiste, è solo una merda funzionalista. Il taxista non ebbe dubbi, partì e iniziò a cercare strade che avessero palme.




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