Dalla fine temporale del mondo alla fine spaziale dell'universo.
La mostra inaugurale vista da un fisico.
Riapre il Centro Pecci e il direttore Fabio Cavallucci ha scelto di partire dalla fine, addirittura da La fine del mondo. Una scelta inattesa, credo, ma certo una proposta che si presta bene a stimolare un dibattito pluridisciplinare aperto ai contributi di diverse sensibilità ed esperienze.
Cosa evoca in un fisico il titolo della mostra? Soprattutto, quali sono le aspettative di uno scienziato sui contenuti di una mostra sulla fine del mondo?
In primo luogo la fine del mondo può indicare la fine del nostro mondo fisico, la fine spaziale dell’universo. Cosa c’è oltre quel finis, quel confine che avviluppa il nostro mondo? Difficile rispondere affindandosi alla propria immaginazione. È di questi giorni poi la straordinaria, epocale dimostrazione delle onde gravitazionali, la conferma della correttezza della relatività generale. Una dimostrazione che svuota di significato un interrogativo come questo, che destabilizza la nostra percezione dell’universo come contenitore immutabile che ospita noi, pianeti, galassie…
C'è un altro confine verso il quale il titolo della mostra ci porta: la fine temporale del mondo. Subito però le simmetrie del nostro pensiero ci guidano all’altro estremo, all’istante iniziale del mondo. Cosa c’era prima di questo inizio?
In perfetta analogia con il tempo zero, ci dirigiamo poi verso lo spazio zero. Com’è il mondo all’estremo spaziale dell’infinitamente piccolo? Se mentalmente cerchiamo dentro di noi qualche paradigma, qualche risorsa atavica per costruire immagini adeguate, ci scopriamo fragili, fragilissimi. La nostra specie ha distillato parole e immagini ─ meglio, immagini prima e parole poi ─ grazie a limitate capacità sensoriali che sono adeguate a descrivere, a “comprendere”, una certa scala dimensionale. È pericolosissimo estrapolare questi schemi mentali e comunicativi fuori dal loro dominio.
Immaginare l’atomo come un sistema planetario in miniatura o immaginare un elettrone come una piccola biglia porta rapidamente a contraddizioni insormontabili. Come rappresentare questo limite spaziale? Non abbiamo parole né immagini. Inutile tentare con la probabilità, con l’indeterminazione, con il dualismo. L’elettrone non è un oggetto duale onda-particella. L’elettrone semplicemente non è né un’onda né una biglia. È altro, è un elettrone. Noi abbiamo il linguaggio della matematica per capirlo, prevederne il comportamento, ma non le parole nel nostro vocabolario. Dunque come rappresentare questo finis del mondo? Chissà che dall’intuizione degli artisti, dalla loro discussione con gli scienziati, non possa nascere qualcosa di adatto, qualcosa di efficace che possa entrare a far parte dell’immaginario dell’homo sapiens sapiens allargando così la nostra capacità di astrazione, facendoci diventare ancor più sapiens e meno primati evoluti. Non è un passaggio facile, ma le immagini possono più delle parole.
C’è un analogo apparentemente lontano di questa difficoltà di comunicazione di un concetto difficile e nuovo come l’elettrone… la giraffa. Già, giraffa, parola con la quale ho evocato in voi un’immagine molto precisa. Eppure solo secoli fa questo animale era in Europa animale esotico e ignoto. Descrizioni vaghe e confuse portarono a coniare la parola camelopardo, un animale duale tra il cammello e il leopardo (una sorta di onda-particella ferina). Da qui le prime rappresentazioni da parte di artisti che non avevano visto l’animale, ma si sforzavano di immaginarlo grazie alla loro conoscenza di cammelli e leopardi. Speriamo di vedere delle belle giraffe al Centro Pecci!
Moira Ricci, Dove il cielo è pù vicino, 2014, foto documentativa. Lavoro prodotto da Associazione culturale Lo Scompiglio. Photo courtesy l'artista/galleria LaVeronica Arte Contemporanea