#Venezia79
con Abylai Maratov, Zhanel Sergazina, Seydulla Moldakhanov
(Estonia-Kirghizistan-Lettonia, 2022) 81' - v. or. sott. it.
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Spettacoli
mercoledì 12 aprile, ore 19.15 - v. or. sott. it
sabato 15 aprile, ore 19.40 - v. or. sott. it.
mercoledì 19 aprile, ore 17.15 - v. or. sott. it.
L'ULTIMO DONO DEL REGISTA È UN DOLOROSO TENTATIVO DI INTROSPEZIONE SENZA FILTRI (Emanuele Sacchi, mymovies.it)
Una ragazza incontra uno scrittore e tra loro nasce un'attrazione reciproca. Lui nasconde un passato di relazioni burrascose, che lei gli chiede di interrompere ad ogni costo. L'amore tra i due diviene nel tempo ossessione e desiderio di reciproca sopraffazione. Ma forse si tratta solo di un sogno premonitore, guidato da una voce misteriosa e onnisciente.
Girato in Kirghizistan nel 2019, concluso e montato da amici e colleghi, La chiamata dal cielo è l'ultimo film di Kim Ki-duk, scomparso nel dicembre 2020.
Un dono postumo e inatteso, su cui occorre bilanciare il giudizio e tener conto delle difficoltà di budget incontrate dall'autore, alle prese con una profonda crisi personale e professionale seguita alle accuse di abusi sessuali ricevute da più parti.
Al di là delle ovvie differenze fenotipiche - le lingue utilizzate, prevalentemente il kirghizo, e le ambientazioni, tra Lituania ed Estonia - il film è in linea con la produzione dell'ultima fase di Kim, seguita all'autoanalisi sotto forma di mockumentary di Arirang. Dal 2011 in avanti Kim ha utilizzato il cinema come una sorta di terapia, una inevitabile catarsi e una valvola di sfogo, su cui riversare confessioni e rimpianti di una vita non priva di momenti oscuri.
Al centro di La chiamata dal cielo c'è ancora una volta una relazione tormentata e distruttiva, che Kim cerca di rendere esemplare dell'inscindibile legame tra Amore e Odio, sesso e perversione, possessività e autolesionismo. Un assunto ricorrente (Bad Guy, Ferro 3, L'isola), benché modulato sotto varie forme, nel cinema del regista sudcoreano, che qui prova ad asciugare ulteriormente la narrazione e astrarre, rendendo la vicenda quasi un canone di relazione malata.
I detrattori si soffermeranno sull'evidente misoginia del punto di vista di Kim, che ritrae immancabilmente uomini violenti e preda dell'istinto e donne manipolatrici e passivo-aggressive, sui vari simboli fallici presenti, o sulla fragilità e ambiguità di molti passaggi di sceneggiatura. Ma è giusto, anche perché l'autore e la sua carriera lo meritano, guardare a La chiamata dal cielo come a un doloroso tentativo di introspezione senza giustificazioni né filtri, come lascia intuire l'incipit - una frase di Kim Ki-duk sugli errori del passato e l'impossibilità di intervenire sul Tempo.
Attraverso l'espediente della "chiamata divina", una telefonata misteriosa e apparentemente onnisciente, che guida i sogni della protagonista e li trasforma in realtà, Kim tenta di sistemare i propri misfatti tramite l'arte, salvo arrendersi alla ciclicità della vita e del dolore inflitto (richiamando così Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera). A tratti questa materia grezza e brutale acquisisce un fascino inconsapevole, quasi che Kim si ricongiungesse al Kim Ki-young di Insect Woman e a una stagione del cinema sudcoreano, la cosiddetta "Golden Age", in cui l'approccio sconvolgente alla relazione uomo-donna poteva procedere senza scrupoli e timori di essere considerato "tossico".
Forse sono impressioni o suggestioni, ma quel che è certo è l'amore di Kim per il cinema, fino a considerare la macchina da presa un terapeuta, un'appendice, un imprescindibile strumento per proiettare la propria psiche tormentata. La sua sincerità d'autore ci mancherà terribilmente, a prescindere da ogni considerazione off screen.
Viale della Repubblica, 277, Prato
Spettacoli
12 aprile, ore 19.15 vos
15 aprile, ore 19.40 vos
19 aprile, ore 19.15 vos
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