La rassegna a cura del Centro Pecci Cinema in collaborazione con Arcigay Prato e Pistoia
Centro Pecci Cinema è lieto di presentare la rassegna Pezzi Unici, una collaborazione con Arcigay Prato e Pistoia, con il patrocinio del Comune di Prato, in un rapporto che può svilupparsi col tempo in relazione all’attenzione che il Centro Pecci ha sempre avuto nei confronti dei diritti civili ed in generale della differenza vista come unicità, a cui fa riferimento il titolo della rassegna.
Il cartellone si compone di quattro film tra i più interessanti usciti sull'argomento in Italia negli ultimi mesi, titoli che raccontano in maniera acuta e delicata l'identità di genere, ovvero la tipizzazione sociale, culturale e psicologica dell'essere umano contemporaneo. Oltre a questo, un altro obiettivo è quello di dare rappresentanza a tutte le varie soggettività che compongono la comunità LGBTQIA+ a colmare una mancanza evidente dell'area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia.
I primi tre titoli sono registi francofoni tra i più apprezzati e conosciuti a livello internazionale: Céline Sciamma e Jacques Audiard (francesi), e Xavier Dolan (canadese); mentre l'ultimo film è dell'artista e regista svedese Anna Odell.
Ingresso con biglietto cinema regolare €7, ridotto €5
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Finissage mercoledì 27 aprile, dalle ore 20.00, presso il CARGO Bar Bistrot del Centro Pecci
La proiezione del film X & Y – Nella mente di Anna, ultimo titolo in cartellone, sarà introdotta da un aperitivo cinematografico che proseguirà fino a tarda serata. Al termine della proiezione il brindisi di finissage della rassegna Pezzi Unici.
mercoledì 6 aprile ore 21.15
Petite Maman di Céline Sciamma
Con Joséphine Sanz, Gabrielle Sanz, Nina Meurisse
(Francia, 2021) 72'; v. or. sott. it
La nonna di Nelly, che ha otto anni, muore in una casa di riposo. Lei e i genitori raggiungono quella che era la sua abitazione per sistemarla per una probabile vendita. La mamma, Marion, ritrova ciò che possedeva quando era bambina e racconta di una capanna costruita nel bosco che si trova nei pressi dell’abitazione. D’improvviso poi parte lasciandola sola con il padre. Girovagando nel bosco Nelly trova una bambina che sta costruendo una capanna. Quella bambina si chiama Marion.
"Quasi guidata dalla mano poetica di Tim Burton, col suo Big Fish, o da quella di Emir Kusturica (Arizona Dream: la fatuità dell’esistenza, la leggerezza comme l'oiseau del sogno), Céline Sciamma, pur in un presenza di un’asciuttezza formale che la differenzia dai colleghi, imbastisce una storia ectoplasmatica, che assume via via la forma della più viva materia. Col fulcro naturale – e immerso nella natura, identica e in continua mutazione – collocato in una vecchia capanna-utero di arbusti da abbellire, filum affettivo ed emozionale fra la vecchia Marion e la nuova Marion, e fra entrambe e Nelly, ogni immagine pare sovrintendere a ogni altra, in una costruzione che si sbroglia sotto i nostri occhi, testimoni di un vero e proprio viaggio nel tempo e negli spazi (domestici). Se si desidera parlare di una proto-elaborazione del lutto, non si può farlo secondo dettami troppo codificati – per esempio, seguendo alla lettera le teorizzazioni a vari stadi di Lindermann o Bowlby, tra gli altri –, piuttosto ragionando sul concetto di morte come ri-nascita. Ci si riferisca magari a Edgar Morin, laddove amplia i postulati sul totemismo (L’uomo e la morte, disponibile in una recente edizione Il Margine, Trento), trattando di quelle che potremmo definire le metamorfosi statiche, secondo le quali si rinasce come se stessi – magari, in relazione a questa storia, dei se stessi ri-pensati/plasmati – e come i propri antenati. L’ontogenesi della madre-gemella ha dunque intento di accrescimento gnoseologico e di rafforzamento dell’Io, in opposizione a ciò che avveniva in Dead Ringers (Inseparabili), ove predominava, in una vera e propria patogenesi, l’istanza pulsionale auto-distruttiva dell’Es.
Sciamma rifugge poi qualunque tentazione di insistenza melodrammatica sul dolore o sull’infanzia angelica. Geometrizza anzi – in questo senso, si pensi all’eucrasia anti-retorica tra significante e significato di un lavoro come Amour, di Haneke – un’avventura di consapevolezza ludica: Nelly, attraverso l’immaginazione e il gioco, fanciulleschi, sì, ma non bamboleggianti, non perde di vista il proprio compito di demiurgo. Non lo fa neppure quando recita, in una sorta di mise en abyme drammaturgica, dividendosi tra più ruoli e lasciando alla madre-bambina quello da protagonista assoluta. Non lo fa quando guida la direzione del canotto verso un amnios che fonde il presente e il futuro con un passato quasi arcaico, senza tempo, attraverso una connessione musicale con funzione di trait d’union anche fra l’intra e l’extradiegetico. La forma della caverna transizionale – forzo un concetto di Winnicott – è ancora quella della piramide, simile cioè alla capanna di legna, a rafforzare il simbolismo del risveglio della coscienza (come pure di una nuova nascita, di assenza di fusione), sia per i personaggi che per gli spettatori. Il nicchio della fantasia si schiude sul disvelamento della paura – il disvelamento del volto paterno, dopo la rasatura, lo faceva più bello – e riesce a renderla un poco più accettabile, comprensibile.
Un’ultima notazione, magari non necessaria, ma a mio avviso comunque significativa, riguarda la durata di Petite Maman, circa settanta minuti. Ben prima del celebre avviso di Blaise Pascal, già Orazio rilevava, nell’Ars poetica, la complessità intrinseca dell’essere concisi: «brevis esse laboro, obscurus fio», appuntava, e cioè «cerco di essere breve, ma divento oscuro».
La brevità, lungi dall’essere un limite espressivo o la denuncia di mancata incisività, è spesso una dichiarazione esplicita di intenti. La regista, con questa storia intima, povera, nel senso di girata con pochi e non sfarzosi mezzi, a la Dardenne, mi verrebbe da dire, chiarisce la propria urgenza artistica, un’urgenza così ben delineata da non aver bisogno di una narrazione fiume per trovare la compiutezza del racconto. In definitiva, come scriveva Theodore Geisel (Dr. Seuss): «[…] So the writer who breeds/more words than he needs/is making a chore/for the reader who reads./That's why my belief is/the briefer the brief is,/the greater the sigh/of the reader's relief is./And that's why your books/have such power and strength./You publish with shorth! (Shorth is better than length)». Soprattutto quando si racconta perché si ha – autenticamente – qualcosa da raccontare, in questo caso, forse, la necessità affettiva di pronunciare quell’arrivederci mancato, prima di poter chiudere davvero la casa della nonna e il cerchio del lutto, prima di ricollocare al suo posto – quello del ricordo pieno d’amore, non per niente multisensoriale – il bastone-feticcio. L’abitazione sul finale ci appare spoglia, eppure satura delle presenze che l’inventiva della piccola Nelly ha creato per se stessa, per sua madre e infine per noi. Ci sembra persino di percepire ancora l’odore delle frittelle… Adesso è possibile aprirsi a un legame materno rinnovato (una mamma che è triste, ma non a causa della figlia, una mamma che l’ha sempre voluta, anche prima di volerla davvero), senza più ombre spaventose ai piedi del letto: nessuno spettro, solo presenza, nessun altro, solo Marion e Nelly. (Ilaria Mainardi, spietati.it)
mercoledì 13 aprile ore 21.15
Matthias & Maxime di Xavier Dolan
Con Xavier Dolan, Harris Dickinson, Anne Dorval, Marilyn Castonguay, Catherine Brunet
(Canada, 2019) 119'; v. or. sott. it
Maxime sta per abbandonare Montreal per trasferirsi il più lontano possibile: in Australia, dove conta di mantenersi facendo il cameriere in un bar. Il giovane uomo è circondato dagli amici di infanzia, un gruppo chiassoso e dissacrante che continua a volersi bene nel modo in cui lo fanno i bambini: giocando, ruzzolando, prendendosi a cazzotti. Intorno a lui non ci sono maschi adulti ma tante figure femminili, fra cui la madre alcolizzata e invelenita che lui conta di affidare a una guardiana in sua assenza dato che fino a quel momento, grazie alla latitanza di suo padre e suo fratello, è sempre stato il solo ad occuparsene.
L'inquietudine di Matthias e Maxime
"Il bacio tra Matthias e Maxime, il primo, quello “cinematografico” che per scherzo li unisce per sempre in un corto amatoriale più vero del vero, è un bacio non innamorato. È un bacio rimosso, immaginato, mai visto: nasce e muore in quella brevissima durata, ed è un bacio non spontaneo. Ma è in questa forzatura “attoriale” fuori campo, una partecipazione dettata da scommessa e intraprendenza, che Matthias e Maxime, amici, giovani, sentono di non poter amarsi. Le ragioni sono infinite, ma sono più importanti le illusioni: perciò la vita, per Matthias & Maxime, sarà un’eterna lotta contro la concretezza di un realismo spietato. Appunto, giovani.
E Xavier Dolan, che oggi di anni ne ha trenta, con Matthias & Maxime sembra voler tornare indietro, rincasare nell’adolescenza di J’ai tué ma mère e Les amours imaginaires per rivivere un tempo probabilmente finito troppo in fretta. Lo fa con ciò che gli riesce meglio, il narcisismo come messa a nudo di un’idea (di cinema). Ma si tratta di un narcisismo che fa rima con violenza: Matthias & Maxime è un film straziato, che insiste sulla dilatazione temporale del sentimento (e della soddisfazione del sentimento) con una tale pervicacia da apparire perversa. È però la perversione dell’insicurezza e dell’ostinazione, una perversione che non è ossessione bensì candore.
Non c’è niente di più bello della persistenza interrotta, e sempre rinviata, e sempre a un passo dal broncio, sempre a una distanza poco rassicurante dal capriccio. Non posso rimproverare Dolan di eterna giovinezza, la sua è anche una riflessione sull’essere cresciuto più in fretta di quanto forse lui stesso si aspettasse. Credere ancora alla vita come a un’istanza è una posizione che non tutti sono disposti ad occupare. Credere che il cinema possa aiutare, e debba rappresentare le pulsioni e gli affetti, le sorprese e gli imprevisti, è una necessità che - non mi vergogno a dire - sento anche mia.
È il cinema infatti a mettere in scena quell’impacciato rapporto sessuale arrestato bruscamente, “Noi non siamo così”, filmato in 35 e 65mm e formato 2.2:1, ruvido come i baci di Quando hai 17 anni di Téchiné, un sogno forse, una “finzione”, chissà, un altro “corto”. Ed è il cinema a tornare con prepotenza insperata quando la malinconia e la solitudine si mangiano il giorno e la notte, i luoghi e i soggetti: nei suoi momenti più disperati, nella sua immediatezza senza filtri, Matthias & Maxime pare appartenere alla New Hollywood, come un Rafelson ancora alla ricerca di cinque pezzi facili.
L’inquietudine di Matthias e di Maxime deriva dunque da generalità date per scontate; concedere un significato a quel bacio “finto”, dargli una direzione e una “possibilità”, contro ogni logica e ogni buon senso, è ciò che la narrazione di un’età così folgorante e così decisiva è chiamata a fare. D’altronde il buon senso è, nell’articolazione dei sentimenti, una dannazione: meglio continuare a lasciarsi travolgere da tutti i battiti inspiegabili del cuore più giovane che spegnere i pensieri e chiudere gli occhi." (Pier Maria Bocchi, cineforum.it)
Parigi, 13Arr di Jacques Audiard
Con Lucie Zhang, Makita Samba, Noémie Merlant, Jehnny Beth, Anaïde Rozam
(Les Olympiades; Francia, 2021; 105; v. or. sott. it)
Nel 13° arrondissement di Parigi il desiderio è dappertutto. Émilie incontra Camille, prof di lettere che la innamora ma si innamora di Nora, provinciale e timida che videochiama Amber Sweet, cam girl che la 'riconnette' col mondo. Tre ragazze e un ragazzo in un mondo liquido. Amici, amanti e le due cose insieme, riempiono di colori un mondo in bianco e nero.
"Non è la prima volta che Jacques Audiard, nutrito di letteratura francese e di cinema americano, pratica generi diversi (dal melodramma sociale al western) e interrompe la collezione di film 'neri' in cui eccelle (Sulle mie labbra, Il profeta, Un sapore di ruggine e ossa, Dheepan - Una nuova vita).
Dai suoi debutti non smette di filmare la maledizione della violenza, la relazione filiale, il disagio maschile, la forza delle donne e il declino della virilità. Tutti i suoi film, in cattività o in libertà, difendono l'alterità e l'immagine di una società ibrida, multiculturale e multirazziale. Les Olympiades non fa eccezione ma ha una morbidezza sconosciuta al regista. Forse perché la sceneggiatura è scritta a sei mani con Céline Sciamma (Ritratto della giovane in fiamme) e Léa Mysius (Ava), che lavorano ai fianchi il virilismo esacerbato di Audiard, lasciando respirare il female gaze.
Quello che concerne pienamente l'autore è invece l'abilità a esaltare i suoi giovani attori (sconosciuti) sullo schermo e nel décor di una Francia multiculturale. Questa volta è l'Olympiades con le "fortezze quadrangolari", come le descrive Michel Houellebecq, dimorandoci coi suoi personaggi.
Il 13° arrondissement, il più atipico della capitale francese, è uno spazio riconvertito e composto da edifici in pietra e in stile americano che offre diversi 'volti' agli acquirenti come al cinema di Audiard. È il centro nevralgico dei cuori e dei corpi di una giovinezza ebbra d'amore che naviga a vista in quell'enorme transatlantico di torri, ormeggiato sul molo dell'ex stazione di carbone della Gobelins. Sapporo, Messico, Helsinki, Tokyo... gli otto blocchi verticali dell'Olympiades prendono il nome delle città che hanno ospitato i Giochi Olimpici. E nei suoi edifici residenziali, vivono oggi nuovi 'campioni' olimpionici.
A immagine della riqualificazione del quartiere, la più grande dopo quella haussmanniana, Audiard assegna al suo cinema un nuovo obiettivo. Adattato da tre racconti grafici di Adrian Tomine, grande nome del fumetto americano indipendente, Les Olympiades abbraccia i destini, brillantemente incrociati, di tre filles e un garçon in sintonia col paesaggio parigino.
In un sontuoso bianco e nero, Audiard disegna la cronaca contemporanea, e sovente comica, di una giovinezza eteroclita alla ricerca di sé stessa e di qualcuno da amare, e da cui farsi amare.
Tra stazioni della metro e centri commerciali, giardini e spianate, ristoranti e commerci che si sognano prosperi, una fauna di tutte le origini (soprattutto cinese), si muove, si urta, si infiamma, si ferisce. Il poliamore regna sovrano fino a quando i sentimenti rimangono sigillati. Due donne hanno una relazione con lo stesso uomo mentre cercano l'amore vero sulla mappa della stagione post-romantica.
Le nuove tecnologie, onnipresenti nel film, servono gli incontri online, il porno virtuale, le molestie, il pubblico ludibrio, soffocando la voce umana che tuttavia si fa largo negli incontri vis-à-vis, nel confronto corpo a corpo e nella sessualità sfrenata.
Audiard gira un film che cancella le frontiere dell'orientamento sessuale come quelle del colore. Il bianco e nero sublima le etnie, che non definiscono mai i personaggi. È uno dei miracoli di questo racconto di destini in divenire che fanno vibrare un quartiere parigino senza bellezza.
Il piacere che offre Les Olympiades nasce soprattutto dai dialoghi e dai suoi personaggi, che palpitano di vita e di speranze fragili. Lucie Zhang, Makita Samba, Jehnny Beth e Noémie Merlant sono i volti di una nuova generazione di attori che rifiuta il pessimismo di ambiente e corregge la ruvidità del regista. Per Jacques Audiard non si tratta solamente di trovare nuovi corpi ma di restituire un sentimento, una sensazione sullo schermo. Il 'gusto di ruggine' o il sapore di 'baci rubati', ravvivando la fiamma olimpica dei maratoneti di domani." (Marzia Gandolfi, mymovies.it)
mercoledì 27 aprile ore 21.15
X & Y - Nella mente di Anna di Anna Odell.
Con Anna Odell, Mikael Persbrandt, Trine Dyrholm, Vera Vitali, Shanti Roney
(X & Y; Svezia-Danimarca, 2018; 112'; v. or. sott. it)
Anna Odell, regista e visual artist svedese coinvolge alcuni dei più importanti attori ed attrici del cinema e del teatro nordeuropei in una sperimentazione che ricorda da vicino alcune opere di Lars Von Trier. Chiede al più che noto attore Mikael Persbrandt di confrontarsi con lei realizzando un film che diventerà una performance in cui sia lei che lui (che hanno un passato complesso alle spalle) convivranno con i colleghi in uno studio attrezzato con alcune casette che fungono da sala da pranzo, da camere ecc. Anna avrà con se tre attori/attrici che rappresenteranno differenti aspetti della sua personalità e lo stesso accadrà per Mikael. Una volta assegnati i ruoli nessuno di loro sarà più autorizzato ad uscirne. Per nessun motivo.
"Le cinque variazioni di Lars Von Trier aleggiano su questa opera di Anna Odell così come la collocazione delle casette nello studio rimanda ad uno spazio vontrieriano analogo ma con assenza di pareti: quello di Dogville.
C'è poi un'altra presenza, non sappiamo quanto consapevole, ed è quella del sociologo Erving Goffman con la sua teoria dell'essere umano come attore sociale il quale, nel corso della sua vita quotidiana, assumerebbe così tanti ruoli dal finire con il perdere la consapevolezza della sua vera essenza. È quello che, senza un copione precostituito, Odell vorrebbe invece fare emergere mettendo progressivamente a nudo emozioni e pulsioni con una forte sottolineatura sul versante della sessualità.
Tutto questo in un mix di finzione e realtà che continua a funzionare nella sua voluta ambiguità anche di fronte allo spettatore più smaliziato. Perché quando si assiste a situazioni che dovrebbero essere intime ed ignote agli altri e si decide di non sospendere la famosa incredulità viene da chiedersi perché ci sia comunque una camera impegnata a riprendere. Subito dopo però un quasi pirandelliano gioco delle parti torna a coinvolgere. Odell in definitiva ha realizzato un film troppo vero per essere finto ma anche un film troppo finto per essere vero." (Giancarlo Zappoli, mymovies.it)
La differenza come unicità, il cinema come linguaggio contemporaneo.
Centro Pecci Cinema è lieto di presentare la rassegna Pezzi Unici, una collaborazione con Arcigay Prato e Pistoia.
Viale della Repubblica, 277, Prato
Finissage cinema 'n drink mercoledì 27 aprile, dalle ore 20.00 presso il CARGO Bar Bistrot del Centro Pecci