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The Missing Planet: Perestroika | Shortcuts

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Erik Bulatov

Perestroika, 1989 (2019)

Progetto originale sulla facciata del Centro Pecci

all'interno della mostra The Missing Planet. Visioni e revisioni dei "tempi sovietici" dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte

8 novembre 2019—3 maggio 2020

a cura di Marco Scotini e Stefano Pezzato

progetto di allestimento di Can Altay

 

The Missing Planet apre un nuovo programma di mostre, ideato dalla direttrice Cristiana Perrella e dedicato ad approfondire temi, periodi e linguaggi della collezione del Centro Pecci, affidandone la cura ad un esperto invitato come guest curator e affiancato dal responsabile delle collezioni e archivi Stefano Pezzato. La cura di questa prima mostra è affidata a Marco Scotini che ha integrato decine di opere della collezione del Centro Pecci con altre provenienti da importanti collezioni e istituzioni italiane e internazionali, per comporre una 'galassia' delle principali ricerche artistiche sviluppate nelle ex repubbliche sovietiche tra gli anni Settanta e oggi: dalla Russia alle province baltiche, caucasiche e centro-asiatiche. Il progetto originale dell’allestimento è dell’artista Can Altay.

 

A trent'anni dalla caduta del muro di Berlino e dalla successiva dissoluzione dell’URSS, non si può evitare la domanda su come sia cambiato il mondo in questi decenni, privato della radicale alternativa che rappresentò per Settant'anni il Paese dei Soviet. Quello che allora doveva apparire come un nuovo inizio, di fatto, di nuovo aveva ben poco nei suoi obiettivi: si trattò della negazione del cosiddetto Est (dei suoi valori) in favore di un’affermazione (espansione) dell’Ovest che, da quel momento, si sarebbe rivelato onnipresente e onnipotente. Che senso ha ritornare al Pianeta Rosso in un momento in cui le "stelle" del capitalismo sono libere di muoversi lungo le proprie orbite, senza più pressioni o attriti con corpi "alieni"? Trent'anni sono passati anche dalla prima mostra che il Centro Pecci dedicò, tempestivamente e pionieristicamente, alla scena artistica non-ufficiale sovietica, sull'onda della Perestrojka. Nella primavera del 1990, Artisti Russi Contemporanei, a cura di Amnon Barzel e Claudia Jolles, testimoniò l’euforia del momento e, contemporaneamente e contraddittoriamente, la nascita di un sentimento di timore verso il futuro. A questa prima mostra, il Centro Pecci ne fece seguire un'altra, altrettanto importante: Progressive Nostalgia, a cura di Viktor Misiano. Una mostra che testimoniò la disillusione dello spazio post-sovietico di fronte ai processi di transizione e integrazione in Occidente, la crisi del capitalismo finanziario, dello smantellamento dei diritti sociali e della svolta autoritaria del liberismo, rimettendo totalmente in discussione l’ottimismo iniziale e registrando lo sconforto di fronte al fallimento del presente. The Missing Planet si propone oggi come attuale e ultimo capitolo dell'ideale trilogia post-sovietica al Centro Pecci e non potrà che confrontarsi con un duplice passato: quello dell’utopia da un lato e quello della memoria dall'altro, a partire da opere delle due esposizioni precedenti. Se Artisti Russi Contemporanei ha testimoniato la svolta mancata, con l'apertura a Est, e Progressive Nostalgia ha evocato la storia perduta, mettendo in scena una sorta di lutto o commiato, la nuova mostra propone un approccio archeologico dove fantasmi e realtà cercano di fare i conti con le "rovine del futuro". L’intento è quello di agire sul tempo, ma anche "contro" di esso, in favore di un tempo che deve ancora accadere. Per questo, tra metafora e realtà, la mostra propone un immaginario cosmico e utopistico che ha accompagnato l'epopea dell’Unione Sovietica, trasformando lo spazio espositivo del museo in uno Space Shuttle, dentro al quale Solaris di Andrei Tarkovskij incontra Kunst camera di Sergei Volkov come pure Once in the XX Century di Deimantas Narkevicius.

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Ren Hang. Nudi | intervista a Cristiana Perrella

Ren Hang. Nudi

a cura di Cristiana Perrella

04 giugno —30 agosto 2020

 

Esplicito ma anche poetico, il lavoro dell’acclamato fotografo e poeta cinese Ren Hang (1987– 2017) è esposto per la prima volta in Italia con una selezione di 90 fotografie, accompagnate da un portfolio che documenta il backstage di uno shooting di Ren Hang nel Wienerwald nel 2015 e un’ampia sezione di libri rari sul suo lavoro. Ren Hang è noto soprattutto per la sua ricerca su corpo, identità, sessualità e rapporto uomo-natura, che ha per protagonista una gioventù cinese nuova, libera e ribelle. Per lo più nudi, i suoi soggetti appaiono su un tetto tra i grattacieli di Pechino, in una foresta di alberi ad alto fusto, in uno stagno con fiori di loto, in una vasca da bagno tra pesci rossi che nuotano oppure in una stanza spoglia, i loro volti impassibili, le loro membra piegate in pose innaturali. Cigni, pavoni, serpenti, ciliegie, mele, fiori e piante sono utilizzati come oggetti di scena assurdi ma dal grande potere evocativo. Sebbene spesso provocatoriamente esplicite nell'esposizione di organi sessuali e nelle pose, che a volte rimandano al sadomasochismo e al feticismo, le immagini di Ren Hang risultano di difficile definizione, scottanti e allo stesso tempo pure, permeate da un senso di mistero e da un’eleganza formale tali da apparire poetiche e, per certi versi, melanconiche. I corpi dei modelli – tutti simili tra loro, esili, glabri, dalla pelle bianchissima e i capelli neri, rossetto rosso e unghie smaltate per le donne – sono trasformati in forme scultoree dove il genere non è importante. Piuttosto che suscitare desiderio, queste immagini sembrano voler rompere i tabù che circondano il corpo nudo, sfidando la morale tradizionale che ancora governa la società cinese. In Cina infatti, il concetto di nudo non è separabile da quello di pornografia e il nudo, come genere, non trova spazio nella storia dell’arte. Le fotografie di Ren Hang sono state per questo spesso censurate. “Siamo nati nudi…io fotografo solo le cose nella loro condizione più naturale” (Ren Hang).


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