Verso il futuro, in un infinito conto alla rovescia. In vista della mostra inaugurale abbiamo intervistato l'artista Julian Charrière, per parlare di presente, passato, futuro e della (presunta?) fine del mondo.
Chi sei?
Bella domanda! Credo che scoprirlo sia l’obiettivo di tutta una vita. Per farla breve posso dire che mi chiamo Julian Charrière, sono un artista di origine svizzera e francese di base a Berlino, dove dal 2006 lavoro e vivo. Ma stabilire chi sono è una questione che riguarda anche le persone con cui lavoro. Ad esempio, negli ultimi anni ho sviluppato un forte legame professionale e personale con Julius von Bismarck con cui ho collaborato spesso. Inoltre faccio parte di NUMEN, un collettivo che include artisti con cui condivido il mio studio. Grazie a tutte queste collaborazioni la mia personalità e le mie pratiche sono in costante mutamento, e si adattano ai vari metodi di lavoro degli artisti con cui mi trovo di volta in volta ad interagire.
A cosa stai lavorando al momento?
Sto portando avanti il mio primo lavoro sonoro, si intitola On the Edge. Si basa su una serie di countdown provenienti da fonti del tutto eterogenee, tra fiction ed eventi realmente accaduti, che si susseguono senza soluzione di continuità. Il filmato, che include filmati della NASA e dell’esercito americano così come spezzoni di film di fantascienza, é auto-generativo, senza inizio né fine, un loop continuo in attesa di un momento che non arriverà mai: una sorta di spazio-tempo tra progresso e regresso, tra prima e dopo. Non avevo mai lavorato con il suono e per me questa è stata una vera e propria sfida, ma sono molto fiducioso sul lavoro fatto fino ad ora.
Come ti è venuta l’idea?
Sono sempre stato interessato alla natura ciclica del tempo storico, al modo in cui la storia si ripete costantemente. In più sono affascinato dalla relazione tra scienza e fiction, dal loro influenzarsi reciproco, una sorta di cortocircuito narrativo che crea un loop verso l’innovazione e il progresso. Ho cercato di ritrarre proprio questa idea di un progresso infinito, un’idea che oggi si accompagna ad un sentimento opprimente, come se non fossimo più in grado di cogliere e comprendere il mondo in continua evoluzione che ci circonda. Per ottenere questo effetto di uno spazio senza via di fuga dove si è costretti a sperimentare fisicamente questa sensazione di incertezza infinita ho pensato che la cosa migliore fosse lavorare con il suono.
Lavori spesso con la scienza?
Sono molto interessato ai processi che si nascondono dietro la produzione di conoscenza scientifica e ai differenti metodi utilizzati per arrivare ad una scoperta. Alla fine la scienza è solo uno strumento utilizzato per descrivere la realtà. Allo stesso tempo, con la realtà che cambia così rapidamente grazie ai progressi tecnologici, trovo interessante capire come la nostra percezione della realtà ha effettivamente cambiato la realtà stessa, e il ruolo della scienza in questo nuovo rapporto. Con i miei lavori cerco poi di comprendere la storia e di guardare al passato per tentare di immaginare come sarà il futuro. Sono una sorta di archeologo che scruta nella storia per capire il futuro, mentre riflette sul presente, un presente che si pone come una sfida perché si trova tra gli altri due tempi. È questo probabilmente l’aspetto più significativo nel mio lavoro: trovare quel presente che sta tra il prima e il dopo. Un aspetto che si ricollega al modo in cui uso i materiali nei miei lavori, un ponte verso idee sul futuro e sul passato, come se fossero una capsula del tempo, una sorta di memoria fisica o un disco rigido del tempo.
Credi che esistano ancora scoperte da fare?
Ogni giorno ci sono nuove scoperte! Ho 28 anni, e sono molto interessato ai cambiamenti tecnologici e sociali, al modo in cui ‘’sociale e ‘’tecnologico’’ si influenzano a vicenda creando un ciclo infinito di rimandi. Ogni generazione probabilmente si è sentita parte di un momento storico decisivo, ma penso che la velocità di sviluppo nell’ultimo secolo sia aumentata esponenzialmente, rispetto al passato. Al punto che diventa impossibile afferrare e comprendere il presente, capire in che punto della storia siamo.
Quindi per te il futuro non è un’illusione che abbiamo ereditato dagli anni sessanta…
No, io non la penso così. Viviamo semplicemente in un’era post-utopica. Anche se abbiamo ereditato gli ideali sociali di quel periodo storico la tecnologia si è sviluppata troppo in fretta. Quindi, forse, il problema è il divario incolmabile tra un mondo sempre più iper-tecnologico e le narrazioni utopiche degli anni sessanta che costituiscono ancora oggi il nostro bagaglio culturale. E non possiamo fare a meno di essere nostalgici. Siamo perennemente insoddisfatti perchè i nostri strumenti non sono più appropriati per descrivere questa nuova realtà. E sembra impossibile immaginare una nostra nuova utopia, il nostro futuro.
Quindi dobbiamo scoprire i nostri nuovi strumenti?
Dobbiamo probabilmente scoprire i ''nostri'' anni Sessanta!
Il tuo lavoro ha qualche relazione con l’attualità, con le notizie sotto i riflettori dei media?
Non c’è una relazione immediata con le notizie che affollano i giornali, ma come ho detto prima cerco di essere sempre aggiornato rispetto a ciò che accade nel mondo, per capire l'impatto che il mio lavoro potrebbe avere all’interno di queste dinamiche reali. Nella mia ricerca approfondisco temi che sono rilevanti non solo per me ma anche per gli altri. I miei lavori si sviluppano a partire dai miei sentimenti e dalle mie impressioni personali, ma cerco di trascendere questa dimensione intima includendo anche idee provenienti da persone diverse. Un artista deve essere attento alle dinamiche del mondo in cui vive. Alla fine il mio ruolo è quello di comunicare riflettendo sul presente, cercare di immaginare il futuro riflettendo su ciò che sto e stiamo vivendo.
In che modo le rovine influenzano il nostro immaginario?
Sto lavorando molto con questa idea, anche attraverso il metodo archeologico. L’archeologia si occupa del passato, di qualcosa di nascosto. Abbiamo sempre – per lo meno nella società occidentale, quella che conosco meglio – questo bisogno di scavare nella storia, di andare sempre più a fondo, come se fosse il modo per capire quello che sta succedendo oggi, senza realizzare però che così facendo corriamo il rischio di rimanere intrappolati in quello stesso buco. È un po’ come camminare in avanti, ma guardando all’indietro, dando le spalle all’orizzonte verso cui si sta andando. Quello che cerco di fare è utilizzare questi strumenti e questi meccanismi all’interno del mio lavoro, studiando la memoria attraverso il suo aspetto collettivo e l’influenza che questo ha sulle persone. I carotaggi e gli iceberg dei miei lavori sono esempi di memoria statica. Questi materiali funzionano come scatole della memoria che puoi aprire e leggere come un libro. D’altra parte sono anche molto interessato al modo in cui gli esseri umani costruiscono la realtà, re-inventando continuamente se stessi attraverso la memoria. Ogni volta che guardi un momento passato, quello che stai guardando è già cambiato per il semplice fatto che lo stai guardando. In questo senso la memoria è in rapporto sia al tempo sia alla cronologia, mentre nella materia è bloccata. La memoria umana è qualcosa di attivo, che si re-inventa continuamente.
Come credi che sarà la fine del mondo?
Non ho una risposta a questa domanda, perché non credo che il mondo finirà. L'unica cosa che può finire è la nostra idea della fine del mondo. I nostri schemi mentali hanno una matrice antropocentrica: la fine del mondo è un un problema che esiste solo per noi, perché é la nostra esistenza nel mondo a essere effettivamente messa in questione. Il mondo andrà avanti con o senza di noi. E questo non è necessariamente una cosa negativa.
[Immagine di copertina: Julian Charrière and Julius von Bismarck, Clockwork, 2014, Mixed Media, Installation view OBEN, Vienna. Photo: OBEN, Vienna]
Julian Charrière and Julius von Bismarck, Clockwork, 2014, Mixed Media, Installation view OBEN, Vienna. Photo: OBEN, Vienna