Una bussola per orientarsi nei territori sconfinati delle arti, da Wagner alle avanguardie, dal '68 alla computer graphic e alla realtà aumentata. Perché il mondo è cambiato, e non si può più tornare indietro.
Verso la metà del Settecento il filosofo e drammaturgo tedesco Lessing propose una celebre classificazione delle arti ispirata a un normale buon senso, per quei tempi, in cui si distinguevano le arti dello spazio, come pittura, scultura, architettura, caratterizzate dall’immobilità, e arti del tempo, musica e teatro, immerse invece nel flusso temporale. Questa classificazione ha cominciato a incontrare smentite e infrazioni con le avanguardie storiche, soprattutto col Futurismo e Dadaismo, ma si è dovuto attendere il clima del ’68 per averne un definitivo superamento. Quell’anno è stato davvero rivoluzionario, ma non nella politica, in cui non ebbe alcun esito, bensì nell’estetica, se almeno la intendiamo nella sua etimologia, come invito ad affidarsi ai sensi, a lasciarli prorompere allo scoperto.
Era salita alta sull’orizzonte la predicazione del canadese Marshall McLuhan, con la sua nozione di “villaggio globale” che vede la caduta delle barriere geografiche, etniche, sessuali, per dare libero corso a una dirompente onda elettronica. Sotto quell’impulso si pronunciò la condanna delle tecniche rappresentative affidate al pennello, esigendo l’intervento diretto del corpo (Body Art, comportamento, performance) o di installazioni tanto grandi da essere subito corrose dagli agenti atmosferici, cosicché, per fissarne una immagine, occorreva valersi di mezzi capaci di navigare nel tempo, come il cinema, e soprattutto la videoregistrazione, che infatti fece le sue prime comparse col tedesco Gerry Schum, rivolto a fissare le altrimenti precarie creazioni della Land Art. Ricordo in merito una mostra bolognese di cui sono stato tra i curatori, avvenuta nel gennaio 1970, come ne indicava il titolo stesso, in cui per la prima volta siamo andati a registrare sul posto, anche all’aperto, le prestazioni degli artisti più avanzati, soprattutto dell’Arte povera, per poi trasmettere i loro prodotti su una rete di monitor a circuito chiuso nelle stanze della mostra.
Da allora è stata tutta una marcia trionfale nell’abolizione dei vecchi recinti. Io sono stato a lungo docente delle Discipline dell’Arte, Musica e Spettacolo, il famoso DAMS all’Università di Bologna, ma mi presentavo agli studenti con una facezia, dichiarando che in realtà ci potevamo chiamare DP, Discipline della performance, l’unità finale capace di accogliere in sé i vari dati visivi, sonori, gestuali, così ereditando il vecchio sogno di Wagner di pervenire all’opera d’arte totale, al Wort-Ton-Drama. Ma più precisamente avrei dovuto specificare che il nostro era un corso DV, di discipline votate a far confluire tutto questo cumulo di sensazioni ed eventi nel flusso del video, frattanto divenuto maturo e di piena maestria tecnologica, anche per la capacità di articolarsi in due versanti, di chi va a cogliere la realtà in presa diretta, o di chi al contrario ne crea abilmente una virtuale in laboratorio avvalendosi della computer graphic, rivaleggiando coi cartoni animati, o con gli spot pubblicitari. Del resto, nulla di allarmante in merito, fin dai tempi di Toulouse-Lautrec è avvenuto il matrimonio tra i mezzi di espressione dell’avanguardia e i fini della pubblicità.
I livelli dell’”alto”, “medio” e “basso” al giorno d’oggi non possono più essere distinti, ma entrano in un unico affascinante melting pot. Si potrebbe però lamentare che a questo modo, col prevalere dei mezzi tecnologici, si compia un sacrificio troppo spinto della preziosa manualità su cui nei secoli, per non dire nei millenni, ha puntato la vecchia signora pittura, ma è un rischio in larga misura sventato, pensiamo per esempio a un numero uno della videoarte come il sudafricano William Kentridge. Egli ci dimostra come sia possibile compiere un unico percorso, partire da un disegno fresco, vibrante, ricco di tutta la forza che era già immanente alle opere dell’Espressionismo tedesco, ma nello stesso tempo procedere ad “animare” quei robusti schemi grafici, dargli proprio il bene inestimabile del movimento, farli sfilare in processione, accompagnati anche da opportune colonne sonore.
Concerto dei Kraftwerk al Sónar Barcelona, 14.06.13