Tutto iniziò dalla fine. Ma non sappiamo e forse non sapremo mai se, quando la fine iniziò, era giorno o era notte...
Tutto iniziò dalla fine ma non sappiamo, e forse non sapremo mai, se la luce accecante e il tuono che la seguì squarciarono il buio e ruppero il silenzio della notte, o se ferirono una magnifica mattina di sole primaverile o ruppero la monotonia di un grigio pomeriggio di pioggia autunnale.
Non sappiamo se era giorno o era notte ma sappiamo che, se tutt’intorno c’erano boschi o foreste, quelli dovevano essere boschi e foreste quasi silenziosi dove, pur fermandoci ad ascoltare con attenzione, non avremmo udito il canto degli uccelli. Saremmo potuti restare fermi a lungo cercando un debole cinguettio, un fischio, un gorgheggio, ma avremmo incontrato solo il lieve fruscio delle foglie di grandi alberi immobili tra i quali si diffondevano il ronzio degli insetti, il frinire degli strani antenati di grilli e cicale, lo zillare di antiche specie scomparse di cavallette giganti. Con un po’ di fortuna forse, qua e là, avremmo potuto sentire l’eco del ruggito lontano di qualche sauro gigante.
All’alba di quell’ultimo giorno, sessantaquattro milioni di anni fa anno più anno meno, il Sole non venne salutato dal canto degli uccelli, perché gli uccelli non c’erano. La foresta non veniva attraversata dalle urla delle scimmie che si inseguivano tra i rami, perché anche le scimmie non c’erano. Non c’era niente di ciò che oggi è intorno a noi e nessuno era lì a osservare e descrivere quel mondo così diverso dal nostro, dove grandi e piccoli dinosauri stavano per assistere alla fine del mondo, alla fine del loro mondo che è stata l’inizio del nostro.
Quasi sempre, nell’Universo, la fine di una storia è l’inizio di un’altra e porta in sé una sua intima bellezza, che sia nel susseguirsi di piccoli passi impercettibilmente lenti e nel sovrapporsi di quelle piccole cose che rendono grande la Natura, o in eventi rari ed estremi che, come quando una stella muore, esplodono in un’apocalisse che sconvolge angoli di cielo.
Come sul nostro piccolo pianeta azzurro, dove la millenaria e uniforme alternanza delle stagioni, a volte, viene spazzata via da grandi eruzioni vulcaniche o da un asteroide che, colpendo la Terra a una velocità di decine di chilometri al secondo, genera un impatto di proporzioni catastrofiche. E laddove il grigio frammento di cielo cade, l’aria diventa incandescente, i laghi, i fiumi e i mari evaporano istantaneamente, gli animali e le piante vengono inceneriti e le montagne e il suolo vengono scossi da un’esplosione così grande da disperdere polveri e gas nell’atmosfera e cambiare il clima, sconvolgere gli ecosistemi per migliaia di anni, far scomparire un numero inimmaginabile di esseri viventi e cancellare per sempre un’era intera.
Di fronte a tutto questo riemergono dalla mente le parole di Lucrezio che nel suo De Rerum Natura riflette: “bello, quando sul mare si scontrano i venti e la cupa vastità delle acque si turba, guardare da terra il naufragio lontano; non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, ma la distanza da una simile sorte”.
Nessuno, allora, che potesse assistere allo stesso tempo terrorizzato e incantato alla grandiosità di quella fine del mondo, così come nessuno, ancora fino a pochi anni fa, che potesse immaginare anche soltanto i colori e le forme degli infiniti oggetti siderali dispersi nel buio del cielo. Nessuno, almeno fino a quando la scienza ci ha reso spettatori lontani nel tempo e nello spazio, era in grado di assistere all’inizio e alla fine di mondi esotici.
Oggi, invece, grazie a quello che siamo riusciti a comprendere su ciò che ci circonda, possiamo lasciarci catturare dalla bellezza di eventi perduti e possiamo farlo da una posizione sicura, dando loro un contorno e una forma, coscienti di aver portato la luce nella notte dell’ignoranza e della non conoscenza che, fino a non molto tempo fa, avvolgeva il mondo celando quanto era accaduto milioni di anni addietro e custodendo gelosamente quanto potrà accadere in futuro.
Oggi leggiamo le successioni rocciose come pagine scritte dal tempo, vediamo nell’evoluzione degli organismi la mano del caso o di un Dio che ne guida i destini, osserviamo nel cosmo la luce di stelle e galassie che dopo aver viaggiato per un tempo per noi infinito, regala ai nostri occhi quello che ciò che stiamo guardando era, e che oggi, mentre rivolgiamo lo sguardo verso il cielo, non è più.
Cerchiamo disperatamente qualcosa tra le pieghe del firmamento e ci sorprendiamo ancora quando, come tanti Mattia Pascal, attraverso uno strappo nel cielo di carta ci rendiamo conto che la realtà non è soltanto quella davanti a noi, ma anche quella che c’è oltre, dove il baratro del tempo e lo sprofondo dello spazio che abbiamo conquistato con la conoscenza ci regalano emozioni e sensazioni mai provate prima. Oltre lo strappo nel cielo di carta, in quel tempo mai iniziato e che mai finirà e in quello spazio senza un sopra o un sotto, tra mille luci e mille colori, possiamo assistere al susseguirsi del nascere e del morire, dell’essere e del non essere, dell’origine e della scomparsa necessaria, quest’ultima, per lasciare spazio a ciò che viene dopo.
Anche il nostro mondo è già finito tante volte e tante altre finirà ancora senza sottrarsi al ciclo che nella fine di infiniti mondi, infinite volte, porta in sé la bellezza unica dell’Universo che, come una bolla si espande nel nulla e che, probabilmente, è solo uno dei molti universi possibili tra quelli che esistono adesso o che sono esistiti in passato.
Ed è proprio l’Universo stesso, questo nostro Universo, la nostra opera d’arte più grande. Quella che in qualche modo abbiamo plasmato e che, almeno da quest’angolo della Via Lattea, della nostra Galassia, forse siamo i primi a osservare e ad amare, in estasi di fronte a esso, come forse lo era il principe Myškin mentre affermava che solo la bellezza può salvare il mondo.
Cratere Barringer. Photo: USGS/D. Roddy, Wikimedia Commons CC BY-SA 3.0.