"Questo pianeta non ci è stato regalato dai nostri progenitori: esso ci è stato prestato dai nostri figli". L'antica saggezza Masai ci suggerisce che la responsabilità non può essere procrastinata all'infinito. Ne abbiamo parlato con lo scrittore cileno Luis Sepúlveda.
Il Centro Pecci riapre il 16 Ottobre 2016 con una grande mostra su “La Fine del Mondo”. Cosa ne pensa di questo tema?
Quello che posso dire è che non possiamo sapere se questa fine è vicina, sicuramente la situazione in cui ci troviamo è molto preoccupante. Il surriscaldamento globale è reale e misurabile: con l’aumentare delle temperature si sciolgono i ghiacciai e aumenta il livello del mare. Ci troviamo immersi in un cambiamento climatico visible ormai su scala planetaria. Tutto questo è preoccupante perché è causato dall’idea di sfruttare la natura senza timore. Dall’uomo dipende il cambiamento di questa situazione e sempre dallo sforzo umano dipende l'allontanamento da questa “fine del mondo”.
L’uomo ha già provocato la fine di interi ecosistemi, ma quanto ne è consapevole?
Io credo che manchi una coscienza globale e collettiva del grande pericolo che il cambiamento climatico comporta: manca una coscienza forte che faccia capire che un modello economico non può condizionare l’esistenza umana e del pianeta. Non credo però che ci troviamo alla fine di un’epoca, stiamo solo vivendo le conseguenze di un’irresponsabilità enorme nei confronti dell’eredità della natura. Da una parte infatti abbiamo la necessità di avere un accesso costante all’energia e questo ha mutato la forma della Terra con la distruzione delle foreste. Le conseguenze di questo sono state un’alterazione profonda del suolo che ha distrutto l’agricoltura e la vita degli uomini che vivono in quelle zone, come nel caso della foresta Amazzonica. Non parlerei però di fine del mondo, quello che deve finire è il nostro modo irrazionale di vedere il mondo. Questo dipende da una coscienza collettiva che deve ancora crescere e solo crescendo ci avvicina alla fine dello sfruttamento della Terra.
Pensa sia quindi cambiato anche il modo di relazionarsi e raccontare il nostro pianeta?
No, non è cambiato il rapporto delle persone con la Terra. Ad essere variato è l’interesse economico: si è imposta infatti la visione di chi sostiene la deforestazione irrazionale, a scapito della maggioranza che vuole ancora relazionarsi in modo armonico con il nostro pianeta. La vasta regione della Pampa, in Argentina, un tempo era habitat naturale della mucca, ed oggi è stata violentemente trasformata in un campo arido per coltivare soia transgenica. Di anno in anno la terra si impoverisce trasformandosi in un deserto e, aldilà delle terribili conseguenze ambientali, le ricadute sono soprattutto sulla cultura della gente che abitava in questo territorio.
Le ricadute dei cambiamenti ambientali sono quindi anche politiche?
Naturalmente! La desertificazione di cui parlavo prima genera un terribile problema politico: gli abitanti di queste zone agricole sono costretti a migrare nelle grandi metropoli, contribuendo così alla crescita di nuclei di povertà che si formano intorno alle città. L’affermarsi tale visione politica irrazionale porta con sé la coltivazione dei terreni al solo fine di lucro. Questo è un cambiamento totale: umano, politico ed economico. L’unica soluzione per me è restare attivi. Non può esserci alcun ottimismo se non si è attivi e partecipi.
Fotogramma del film How to change the World