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Scenari

La fine del mondo

11 marzo 2016



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Verso il Grand Opening

Il Centro Pecci riapre il 16 ottobre 2016 con una mostra intitolata La fine del mondo, curata dal direttore Fabio Cavallucci insieme a un numero consistente di collaboratori e advisor.
Questo primo testo intende aprire un dibattito sui suoi temi a cui contribuiscono in articoli successivi filosofi, scienziati, scrittori, artisti. In un certo senso, è la prima mostra il cui sviluppo avviene in diretta sul web, a cui tutti possono assistere e dove tutti possono intervenire.


Un esercizio della distanza per vedere il tramonto del presente da lontano.





Fa un certo effetto sapere che la Luna si sta allontanando di tre centimetri e mezzo all’anno dal nostro pianeta. Questa notizia deve avere sorpreso anche Italo Calvino, se lo scrittore decise di dedicarle una delle sue prime Cosmicomiche. Oggi, la distanza del nostro satellite è ancora ragionevole: 380.000 chilometri circa, ma in qualche milione di anni… Chissà? Sfuggita all’orbita terrestre la Luna si allontanerà indefinitamente nello spazio…

Le distanze dell’universo sono enormi, tanto grandi da essere difficilmente intellegibili per la mente umana. Se dovessimo percorrere il tratto che separa la Terra e la Luna a bordo della nostra automobile, rispettando i limiti di velocità in autostrada, 130 chilometri orari, per raggiungere il nostro satellite impiegheremmo 2957 ore, cioè 123 giorni. Una tempo abbastanza ragionevole, anche se non sono previste soste in autogrill. 

Se invece decidessimo di andare sul pianeta più vicino, Venere, gemello della Terra, la cui distanza minima da noi è 40 milioni di chilometri, alla stessa velocità autostradale le ore di percorrenza sarebbero 307.692, ovvero circa 35 anni. Ancora fattibile per una persona, pur richiedendo l’impegno di una vita. La rotta opposta è già più impegnativa. Marte, che dista 55 milioni di chilometri, richiede 48 anni di navigazione: già ci servirebbe un bella dose di ottimismo per immaginarci il ritorno nell’arco della nostra esistenza. Ma se decidessimo di puntare al Sole, che si trova a 150 milioni di chilometri, il viaggio appare impossibile per un solo essere umano anche in un unico verso: 131 anni.
E il viaggio per Plutone, che dista almeno 4 miliardi e 200 milioni di chilometri? 3688 anni sono troppi anche per un’intera civiltà. Significa che per raggiungere il pianeta nano oggi, un’auto sarebbe dovuta partire all’inizio del Nuovo Regno egiziano, prima di Tutankhamen.
Non parliamo poi di dirigerci verso altre stelle, altri sistemi, o addirittura altre galassie. Se immaginiamo la Terra come una sfera della dimensione di un pisello, Giove sarebbe a 300 metri, Plutone a due chilometri e mezzo. Proxima Centauri, la stella più vicina, si troverebbe a 16.000 chilometri, che significa all’incirca la distanza tra l’Italia e l'Australia. Ovvero, nella realtà, circa 40.000 miliardi di chilometri. Insomma 35 milioni di anni alla nostra velocità autostradale. Certo nello spazio non si viaggia in automobile: la sonda Voyager sta allontanandosi dal sistema solare alla velocità di 17 chilometri al secondo. Ma anche a questi ritmi ci vorrebbero oltre 74.600 anni per raggiungere la stella più vicina.

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Sono tempi lunghi, quelli necessari per viaggiare nello spazio, se rapportati alla singola vita umana, ma molto corti in relazione alla storia dell’universo e anche a quella della nostra Terra.
Sono passati 4 miliardi e 500 milioni di anni da quando questa massa di fuoco ha cominciato a coagularsi e a divenire una sfera solida. Da allora tante cose sono successe nel pianeta in cui viviamo, delle quali gli studiosi ad oggi conoscono appena una piccolissima parte. È stata una storia di sviluppi e catastrofi, di evoluzioni e di tragiche fini, scontri con pianeti e asteroidi, eruzioni e glaciazioni. Una storia in gran parte sconosciuta, a partire dalla creazione della vita, comparsa circa 3 miliardi e mezzo di anni fa, ancora in dubbio se in modo autonomo, se innescata da qualche elemento esterno – chissà, un asteroide o una cometa –, oppure voluta da un dio che aveva già previsto in ciò un fine altissimo. Fatto strano, sorprendente, la vita, inspiegabile nel suo costante anelito a riprodursi ed espandersi, ma per una lunghissima parte della sua storia sviluppatasi in modo monotono, sotto forma di esseri unicellulari.
Doveva essere una vita piuttosto noiosa, quella dei cianobatteri che costituivano le stromatoliti, conglomerati litici che hanno invaso le acque del pianeta per milioni di anni, digerendo idrogeno e rilasciando ossigeno, e producendo così l’atmosfera terrestre che ora respiriamo. Tutto sommato solo recentemente la vita è divenuta qualcosa di più sensato, per cui sembri valere la pena di essere vissuta. Circa 540 milioni di anni fa, nel Cambriano, si assiste all’esplosione repentina di varie forme viventi, alla nascita di animali acquatici la cui costituzione fisica è alla base di quelli attuali. Ci vorranno però ancora milioni di anni per vedere animali giganti sulla terra, fino all’età dei dinosauri, poi estintisi, repentinamente, solo 65 milioni di anni fa. 
E l’uomo? Appena un granello di polvere nell’immensità del movimento cosmico. 

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Quando è apparso in Africa circa 200.000 anni fa, l’homo sapiens si era lasciato alle spalle una lunga catena di precursori: primati, ominidi, pitecantropi, australopitechi, la cui vicenda genetica era cominciata circa 6 milioni di anni prima. Durante questo periodo quegli esseri avevano imparato a camminare su due gambe, a realizzare strumenti di pietra (quanti sono rimasti sulla terra a Olorgesailie, una sorta di fabbrica a cielo aperto che ha funzionato per oltre un milione di anni), avevano conosciuto l’amore (come i due australopitechi che hanno impresso abbracciati i passi della loro fuga sul terreno lavico a Laetoli), avevano appreso la compassione (come nel caso della femmina ritrovata presso il lago Turkana, affetta da ipervitaminosi A, la deformazione delle cui ossa dimostra che non poteva essere sopravvissuta così a lungo senza l’aiuto dei suoi compagni), avevano cominciato a dominare il fuoco (almeno un milione di anni fa, per riferirsi ai resti della grotta di Wonderwerk in Sudafrica). L’homo sapiens appariva in Africa solo 200.000 anni fa, e lentamente si spargeva per tutti i continenti a una velocità di poco più di un chilometro all’anno. Ancora 30.000 anni fa si dovettero svolgere in Europa le ultime lotte con l’Uomo di Neanderthal, che hanno visto quest’ultimo soccombere (o mescolarsi) alla nostra specie. La conquista delle Americhe è ancora più recente: solo 12.000 anni fa, nel corso dell’ultima glaciazione di Würm, l’uomo percorreva a piedi lo stretto di Bering e si espandeva nel continente che sarebbe poi stato riscoperto da Colombo circa 11.500 anni dopo. Solo 10.000 anni fa nasceva l’agricoltura, e da poco più di 5.000 anni l’uomo ha abbandonato le pietre per iniziare l’uso del bronzo e dei metalli.
Frattanto, centocinquantamila anni fa, l’uomo aveva iniziato a usare il linguaggio, che sarà il suo vero privilegio: la capacità di astrazione simbolica. Provengono da soli 30.000 anni fa i resti dei primi segni artistici, nelle caverne di Lascaux e di Chauvet. Come è breve la storia della pratica di cui ci stiamo occupando, quella dell’arte...!

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Se si paragona la storia della Terra ad una giornata di ventiquattr’ore, la vita appare verso le 4,30 del mattino.Questa, così come altre suggestioni presenti nell'articolo è tratta dal libro Breve storia di (quasi) tutto di Bill Bryson, Guanda, 2003. Poi, per tutta la giornata, non cambia granché, solo singole cellule capaci di riprodursi sempre uguali a se stesse, fino a che, verso le 20,30, arriva la prima flora marina. È solo dopo le 21 che compaiono i trilobiti, esseri trivalvi rimasti solo come fossili, seguiti immediatamente dalla grande esplosione del Cambriano. I dinosauri sopraggiungono verso le 23, e scompaiono quando mancano 21 minuti a mezzanotte. La vicenda umana, dal primo ominide che scese dagli alberi, comincia poco più di un minuto prima della mezzanotte, mentre la storia, tutta la nostra storia, ciò di cui siamo almeno un poco consapevoli perché è stato tramandato, dalla scrittura sumera ad oggi, si racchiude in tre o quattro secondi. 
Allora è curioso vedere questo essere microscopico, questa formica sempre indaffarata, che siamo noi, guardare il cielo, cercare di spingersi nello spazio, costruire satelliti e missili, arrivare sulla Luna, su Marte, su Plutone, sulle comete, mandare messaggi ai confini dell’universo, cercando di carpire a sua volta i segreti nascosti nelle sue profondità. Da un certo punto di vista non siamo altro che l’espressione terminale di quella energia innata di espansione che è insita nella vita.

 

In questa ottica, si può osservare la vicenda umana con un certo distacco. Quello che oggi ci appare come senso della fine, è un momento infinitesimale nella curva enorme del tempo e dello spazio. Non è una catastrofe che sconvolge, non un dramma cosmico, ma un semplice cambiamento, una piccola ruga nella dimensione sterminata dell’universo. Un’inevitabile conseguenza delle leggi della fisica e della chimica. Non è la fine del mondo, è solo la fine del "nostro" mondo.




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Il Centro Pecci riapre il 16 ottobre 2016 con una mostra intitolata La fine del mondo, curata dal direttore Fabio Cavallucci insieme a un numero consistente di collaboratori e advisor.
Questo primo testo intende aprire un dibattito sui suoi temi a cui contribuiscono in articoli successivi filosofi, scienziati, scrittori, artisti. In un certo senso, è la prima mostra il cui sviluppo avviene in diretta sul web, a cui tutti possono assistere e dove tutti possono intervenire.

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